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IL CAMPIONE
(THE CHAMP)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 ottobre 1979
 
di Franco Zeffirelli, con Jon Voight, Ricky Schroder, Faye Dunaway, Jack Warden, Elisha Cook Jr., Joan Blondell (Stati Uniti, 1979)
 

Zeffirelli è massacrato a tal punto dalla stragrande maggioranza della critica cinematografica che talvolta si è tentati di difenderlo.

Il suo Gesù televisivo (che moltissimi videro a suo tempo sulla rete italiana) era a tal punto manieristico da diventare onesto. L'illustrazione cartolinesca, tecnicamente sapientissima, acquistava una specie di oggettività critica, una volontà non so fino a che punto cosciente, di starsene fuori dalle varie prese di posizione critiche che si sono succedute storicamente. Il carattere oleografico della sua opera rifletteva in definitiva la sua visione dei Vangeli: quella dì un credente rispettoso della tradizione. Una interpretazione realistica, o fantastica avrebbe sottinteso una equivalente visione morale e ideologica; ed in questo senso lo splendore formale, apparentemente fine a se stesso del Gesù poteva anche avere una giustificazione.

Quali vie del Signore, è il caso di dirlo, abbiano ora portato questo ex illustratore shakespeariano in America, a girare un film di gusto datato sulla redenzione di un pugile sul viale del tramonto, non mi è molto chiaro. Soldi, desiderio di cambiare ambiente, di stemperare la propria vena decadente al contatto con una realtà diversa, come quella del cinema americano in un clima professionale diverso da quello italiano? Il campione è un «remake»: il grande King Vidor ne aveva già girato una versione, nel lontano 1931, interpretata da due celebri personaggi, Wallace Beery e Jackie Cooper. La versione di Zeffirelli si appoggia su alcune basi solide. Innanzitutto, un investimento non indifferente, il che gli permette di largheggiare in quello che la sua preparazione teatrale gli ha lasciato in dote, la decorazione, gli ambienti, le scenografie, i costumi.

Con un uso anche efficace del colore, il regista ci introduce così nel suo melodramma con una certa efficacia. Il pugile in disarmo che si è dato ai cavalli, al gioco. Il ragazzino (insopportabile, ahimè, come tutti i ragazzini sullo schermo; la vocetta dei formaggini di carosello e le mossette imparate al teatrino dell'asilo) che vive con lui ignorando l'esistenza della madre. E questa: sfilate di moda, marito gerontologo (chissà perché), yacht da trenta metri come abitazione che ricompare dopo sette anni di separazione dal pugile per riavere il ragazzino. Tutto questo Zeffirelli ce lo mostra anche con sapienza. Il nostro non è soltanto un raffinato illustratore: la tecnica cinematografica, il senso del ritmo, del montaggio, del taglio dell'immagine o del modo di far entrare in scena un attore lo possiede appieno. Certo, tutto è in funzione del bello: gli aironi rosa si librano in volo sopra l'ippodromo, le bandiere sono rosa anche loro, i vestiti a pois delle signore non possono non riflettere il leitmotiv cromatico.

Si direbbe che Zeffirelli non pensi che a queste cose: ornare, colorare, decorare. Mi si dirà: per questa strada gente come Minnelli, negli anni Cinquanta, ha creato alcuni capolavori. Verissimo, ma con una differenza fondamentale. Gli sfondi di Minnelli, l'uso dei colori non erano mai puramente decorativi: tendevano continuamente a creare un determinato clima psicologico, una tensione morale che determinava il significato di tutta la storia. In quella struttura il melodramma si articolava logicamente, e veniva accettato in quanto tale dallo spettatore. Qui il melodramma, pur sorretto da due grandi attori come Faye Dunaway e John Voight (il partner di Jane Fonda in Tornando a casa) scade immediatamente nell'assurdo: una storia così, con dei personaggi che piangono dall'inizio alla fine, il ragazzino spupazzato in primo piano nei momenti meno opportuni, delle reazioni psicologiche schematiche non ci portano, nel 1979, che ad una reazione inevitabile. Quella di far pensare ad una operazione di recupero dei vecchi trucchi, della politica dei buoni sentimenti, del paternalismo e del qualunquismo.

In un'epoca della quale il cinema (così come la maggior parte delle altre espressioni artistiche) vede le sue forze migliori tese ad un lavoro di analisi del passato, di revisione critica, di ripensamenti morali e linguistici (che non sono altro, d'altra parte, che il riflesso del momento storico, sociale, e che quindi sembrano doppiamente giustificati) è difficile accettare questo tipo di operazione. Si può forse concedere a Zeffirelli l'attenuante della buona fede: più difficilmente, l'avallo della puntualità e dell'autenticità.  


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